Già nel nostro cartellone del 2005/06
ospitammo un film di Philippe Le Guay dal titolo "Il costo della vita",
una tipica 'pochade' francese con un Fabrice Luchini in gran forma, sei
anni dopo recuperiamo il binomio Le Guay/Luchini con il loro ultimo "Le
donne del sesto piano", fenomeno d'incassi in Francia nella passata
stagione cinematografica. Una commedia raffinata e popolare, allegra, di
buoni sentimenti, ma senza retorica. Un risultato piuttosto raro, visti
i tempi; che in Italia non ha avuto lo stesso successo, un po’ perché
molto francese, un po’ perché non abbastanza volgare da meritare una
distribuzione industriale. E poi c'è il tema, l'immigrazione. Un
fenomeno troppo recente da noi per tradurlo in commedia. La maturità di
questo film è la sua leggerezza (come già il precedente citato).
L'astuzia è nel parlare non dell'immigrazione di oggi, con il suo carico
pesante di dolore e lacerazioni sociali, ma di quella degli anni '60. La
storia è ambientata nei quartieri borghesi della Parigi di de Gaulle,
prima del fatidico '68. Una società dove ciascuno doveva stare al suo
posto. Ai piani nobili del bel palazzo vive la famiglia dei signori
Joubert, nel gelido rispetto delle convenzioni. Il signore, Jean-Louis
(ancora un Luchini impagabile) è un serissimo agente di borsa, con
un'unica ossessione nella vita: la cottura perfetta dell'uovo alla
coque. Suzanne (Sandrine Kiberlain), la moglie che rientra ogni sera
estenuata da una giornata di stupide frivolezza. Più due pargoli
viziati, odiosi e già benpensanti. Nella soffitta invece s'agita il
mondo povero, rumoroso e caldo delle donne di servizio spagnole
immigrate. Quando i signori Joubert decidono di fare a meno dell'anziana
domestica impicciona, si rivolgono alla comunità spagnola e assumono
Maria. L'ingresso della giovane e dolce cameriera scardina le certezze
di carta dei coniugi, Jean -Louis scopre ossessioni ben più affascinanti
delle uova e, inseguendo Maria, entra in contatto con l'universo del
'sesto piano', i balli, i canti, le preghiere e la paella, la sofferenza
e la lieta fierezza della piccola comunità, sconosciuta eppure
protettiva. Conosce la saggia Conception (l'almodovariana Carmen Maura),
la comunista Carmen, l'infelice Teresa, la pia e la bella, Pilar e
Dolores. Per la prima volta si sente a casa, in famiglia, euforizzato
dala gioia di vivere e dalla possibilità di divertirsi. Scopre la gioia
di rendersi utile, dando un senso al proprio potere, il denaro. Alla
fine un'esperienza dalla quale jean-Louis e neppure la moglie Suzanne
riusciranno a tornare indietro. La tradizione del rapporto fra padroni e
domestici ha prodotto capolavori di profondità psicologica nel cinema di
Altman, Losey o Chabrol. Non è questa la pretesa del film di Le Guay,
un'opera modesta, nel senso nobile del termine, la storia si muove con
il passo lieve dell'ottimismo, fra ironia e utopia. Un po’ come nel
bellissimo ultimo film di Aki Kaurismaki (i nostri affezionati storici
ricorderanno questo nome nei nostri cartelloni), "Le Havre", ambientato
fra gli immigrati africani di oggi. Senza lo stesso splendore
cinematografico, ma con altrettanta passione umana e tenerezza. Il
regista confeziona una commedia umile e divertente, nostalgica (gli
anno'60 hanno sempre il loro fascino) ma attuale. Con qualche omaggio,
en passant, agli universi sentimentali del grande Pedro Almodovar, non
soltanto nella scelta delle attrici di un'icona del cinema spagnolo come
la sempre straordinaria Carmen Maura. Un discorso a parte merita Fabrice
Luchini che negli ultimi film interpretati si è specializzato nelle
parti di alto borghese in crisi. Ogni gesto, ogni frase detta o non
detta, ogni sguardo esitante o meravigliato, perfino ogni suo passo è da
antologia dell'arte di recitare. Il suo Jean-Louis è un ritratto
esemplare, oltre che un inno all'ottimismo: la vita può ricominciare
anche a sessant'anni. |